Alberto Cristofori: “Boccaccio troppo difficile, l’ho tradotto per gli italiani”


facce dispari
La traduzione come conquista della lentezza. E il "Decamerone" come testo da leggere, non solo da studiare. Intervista con il traduttore e autore di vari manuali scolastici
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“Boccaccio ’70”, “Il Decameron” di Pasolini, la serie tv Netflix “The Decameron” uscita giusto un anno fa. Molte opere sono ispirate al genio certaldese ma diciamoci la verità: il suo capolavoro è più citato che letto e le novelle meglio conosciute sono solo una piccola parte. Quella prosa trecentesca sommersa da un oceano di note e di apparati esplicativi richiama alla mente ripide fatiche liceali o un labirintico roseto selvaggio, dove il profumo si percepisce mentre troppe spine pungono. Perciò Alberto Cristofori, milanese classe 1961, traduttore e autore anche di vari manuali scolastici ha vagheggiato e concluso l’impresa di riportare integralmente il “Decamerone” in italiano contemporaneo: il ponderoso tomo di 784 pagine è uscito a maggio scorso per La nave di Teseo.
Chi glielo ha fatto fare?
L’ambizione che quest’opera venga non solo studiata e decifrata, ma letta con piacere. E che se ne riappropri il pubblico nazionale. È paradossale che certi nostri classici siano meglio apprezzati all’estero perché grazie a una buona traduzione risultano più godibili per un lettore francese o inglese, mentre noi dinanzi a una prosa in italiano del Trecento c’imbattiamo in numerose difficoltà sintattiche e lessicali. Fortunatamente alcuni grandi libri come la “Vita nuova”, il “Novellino”, “Il Principe”, “Il Cortegiano” negli ultimi trent’anni sono stati tradotti in italiano contemporaneo. Il “Decamerone” era stato tralasciato, forse per la dimensione scoraggiante.
Lei definisce la sua una traduzione intralinguistica dal volgare trecentesco all’italiano del Duemila, ma precisa che non è una riscrittura come quella operata da Aldo Busi con la violenta attualizzazione del vocabolario. Per lei “l’ora terza” non diventa “le nove di mattina” e non usa termini come “merchandising” o “terapia d’urto”.
Ho cercato di mantenere il sapore dell’italiano antico ma con l’eliminazione degli anacoluti e la riformulazione delle frasi talvolta di eccessiva complessità, come quando Boccaccio ricorre alla paraipotassi, o latineggia sulla scia di Cicerone e Tito Livio, o inanella una serie di gerundi ormai lontani dal nostro ritmo e dal nostro gusto. In altri casi invece, quando s’affida alle ripetizioni per rimarcare uno stato d’animo, ho scelto di non intervenire. Per il lessico, poi, ho cercato un equilibrio tra la comprensibilità del testo e quella che definisco la “enciclopedia” dell’autore, ossia tutto il suo mondo.
È la prima versione integrale del “Decamerone” in lingua contemporanea?
Ho scoperto che centodiciannove anni fa, nel 1906, fece la stessa cosa Ettore Fabietti, un intellettuale di ispirazione socialista riformista, un divulgatore che promuoveva le “letture amene” per le classi lavoratrici. Quindi c’è anche una traduzione di Boccaccio in italiano protonovecentesco.
Come cominciò la sua attività?
Cominciai da lettore editoriale, poi ho fatto l’editor: un mestiere bellissimo, perché dialoghi con l’autore e devi conquistarne la fiducia per migliorare il suo testo con l’obiettivo comune di conquistare più pubblico. Ora traduco ma continuo a scrivere manuali scolastici e ciò mi è utilissimo: prima di tutto per guadagnare perché, ricordiamolo, dalle traduzioni si ricava sempre poco, e poi perché è una maniera per restare in contatto con le giovani generazioni, diversissime dalla mia. Non voglio crogiolarmi nel tempo che fu.
A quali traduzioni ripensa con più soddisfazione?
Alla “Antologia di Spoon River”, perché ho anche commentato ogni singola poesia spiegando come Edgar Lee Masters attingesse alla cronaca. Poi al “Canto di me stesso” di Walt Whitman, un poemetto che apre la strada alla contemporaneità e su cui ho meditato tanto prima di avere il coraggio di affrontarlo. Whitman mi piaceva ma restava opaco: con la traduzione l’ho scoperto davvero, perché chi legge per tradurre è come una lumaca, si sofferma su ogni parola, riguarda, torna indietro. La traduzione è conquista di lentezza.
Quanto conta la conoscenza diretta dei luoghi raccontati in un’opera?
Essere stati fisicamente nei posti como sono o erano narrati non è indispensabile. Se lo fosse, sarebbe impossibile affrontare non solo gli autori antichi, ma anche una Jane Austen. L’importante è entrare nella loro “enciclopedia” il più possibile, lasciare che questi alieni ci invadano per dialogare con loro.
Cosa sta traducendo?
I libri di Abdulrazak Gurnah, Premio Nobel per la Letteratura 2021, tanzaniano naturalizzato inglese. Trovo che la sua lingua abbia qualcosa in comune con la nostra storia letteraria, germogliata tra più idiomi al pari di molti autori postcoloniali. Nel nostro paese si è sviluppata per secoli una letteratura policentrica, con scrittori che s’esprimevano sia in italiano sia in latino e subivano al contempo l’influenza di specifiche realtà dialettali.
C’è una lettura estiva che ricorda con particolare intensità?
Quando passai gli esami di maturità classica e contemporaneamente dell’ottavo anno di pianoforte. Esausto, partii per le vacanze sul Lago Maggiore con “Ulisse” di Joyce. Non ci capii quasi niente, ma era una sfida con me stesso.
Qual è il rapporto tra musica e traduzione?
Le lingue non sono solo grammatica, lessico, sintassi: ciascuna ha un elemento musicale molto forte. C’è un’onda, un ritmo della frase, c’è una melodia che deve essere colta. Soprattutto se si tratta di poesia.
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